Crepa.

Quando ero piccolina mi intrigavano le storie sui fantasmi, così, quando in cantina scovai un librone che si chiamava Viaggio nel mistero, me lo portai in casa e lo sfogliai per qualche giorno, interessata e spaventata allo stesso tempo. Il problema era la sera, quando magari dovevo andare in bagno, e per arrivarci dovevo attraversare il corridoio buio. La suggestione mi faceva provare la sensazione che dietro di me ci fosse qualcuno, un’ombra scura che mi aleggiava sulla schiena, l’ennesimo personaggio di qualche strampalata storia di spiriti che avevo trovato sul librone.

Crescendo ho perso questa paura, anche grazie alle conclusioni spirituali/religiose a cui sono giunta negli ultimi anni, che non vedono come possibile niente che non sia anche tangibile. Materialismo panteista, così mi piace definire questa visione. Ma è un’altra storia.

Ho perso la paura del buio e dei fantasmi, ma non quella sensazione di peso sulla schiena. Mi rincorre in certi frangenti della mia vita, quelli in cui devo scappare da qualcosa, o da una tentazione.

Nella fattispecie, da qualche giorno mi balza alla mente l’idea di scrivere a V, è un desiderio ardente quasi quanto quello di abbracciarlo forte.

Spengo la luce convinta che dormire mi possa aiutare a non pensarci, a resistere, e invece no, il pensiero mi attanaglia, il buio enfatizza solo quello che provo. La voglia pazza di rivederlo.

Non so cosa darei in questo momento per vincere il mio (sempre sia lodato) cervellino, per togliermi le difese, per staccarmi dall’orgoglio e mettermi al servizio dal mio cuore.

Ma purtroppo il mio cuore è ritardato, e questo la mia testa lo sa bene, quindi va preso e messo a nanna. Ci pensa il sistema nervoso a controllare quella sensazione di spintoni sulla schiena.
Spero resista ancora per un po’.

 

Boom. Dimenticate per sempre le parole qui sopra.

E maledetto sia il giorno in cui ho lasciato che V stringesse rapporti coi miei amici. O sia benedetto.

Non lo so.

Serata tranquilla di karaoke con delle amiche di lunga data, in un bar che sta proprio di fronte a quel semaforo al quale mi sono fermata un anno e mezzo fa per abbracciarlo per quanto mi era permesso dalle cinture di sicurezza ancora allacciate, affogando tra le lacrime disperate sue, e tra le mie silenziose, per accarezzargli la testa e per chiedergli di smettere di essere così triste che tanto c’ero lì io.

Il discorso cade casualmente su di lui: “Sono entrata ieri nel bar di Cicciommerda, mi ha detto che V non lavora più lì”, esordisce Deb, come se fosse uno scoop.

“Già so, a mie spese purtroppo. L’ho incontrato”, ribatto.

Salta su Chiara: “Ecco Jude, a proposito. Non so se ne vuoi sentire parlare o se ti interessa, ma nel caso devo dirti una cosa non tanto bella su di lui”.

Entro in ansia: gli sarà successo qualcosa? Sta male? Cos’ha? “No, dimmelo, non preoccuparti”.
“Forse è meglio che leggi tu stessa”.
Mi mette davanti un cellulare che non ho idea di come funzioni, cerco i tasti ma non ci sono perché è di quelli lì touch screen e io non ci sono abituata, sono affezionata da anni al mio telefonino del pleistocene e nulla ci può separare. Comunque, distinguo nettamente una conversazione Facebook, iniziata da lui, vari “Ciao”, alcuni “Come va”, qualche “Solita vita”. Un solo “Ma Jude tu la frequenti ancora”?

E poi il discorso era tutto tipo “No, perché noi abbiamo più o meno litigato, ma in realtà io so che lei ha preso il minimo episodio insignificante per darmi addosso e ne ha approfittato per chiudere perché non ce la faceva più a starmi vicina perché era innamorata di me. Mi manca ma non è più la persona che conoscevo, se la tira, si crede figa, sembra diventata una super girl, non trovava mai tempo per vedermi perché era sempre in giro con i suoi nuovi amici, insomma mi dispiace perché era una persona fondamentale nella mia vita ma non so se la accetterei di nuovo così com’è”.

Ah, lui, porello, non accetterebbe me. Io non troverei mai tempo per vederlo, quando per un anno ad ogni appuntamento mi ritrovavo sola o con un sms poche ore prima che mi diceva che no, anche quella volta non ci potevamo vedere. Io sarei quella che se la tira, talmente tanto da andare a Londra e rifarmi il guardaroba con 9 sterline da Primark, o da andare a ballare, per non spendere soldi, nel buco di discoteca che c’è a pochi chilometri da casa mia, e ogni santa volta lui non poteva venire con me perché era all’Hollywood o chissà dove ancora, ad una serata di gala per la nuova collezione di gioielli pacchiani del suo ragazzo/homo (sexual) neanderthalis. E poi i miei magici nuovi amici, che sono quelli con cui faccio le tendate e le notti a giocare a Monopoli. Questo è essere una super girl?

 

Non mi accetterebbe più per come sono ora. Grazie al cielo.

Ero una che scappava.

Ero una che piangeva appena era in camera, da sola.

Ero sempre in attesa che l’occasione cadesse dal cielo.

Ero tutte queste cose. Ma sottolineo “ero”.

Quello che sono ora è la cosa che più mi rende fiera.

Affronto la vita, di petto, anzi, di tette, in ogni frangente.

Non scappo più.

Non piango più.

Do il cento per cento in ogni singola cosa che faccio, lo sto facendo anche in questo momento, cercando di abbandonarlo.

Anche ora che la cosa che mi fa più rabbia è ammettere che su un punto, uno solo, ha ragione.

Ero innamorata di lui.

 

Ero.

 

 

(la morte non si augura a nessuno, anche se sarei tentata, ma a lui una bella malattia venerea starebbe bene. Orsù, maledizione wordpressiane, calate su di lui!)

Libertà

Non capisco perchè ogni volta che posso essere felice e contenta, ci debba essere sempre qualche smacco, da parte di V.
Andrò per gradi.

Ieri è stato il classico sabato sera da me, A e G: Monopoli. Ebbene sì. La mia tosse ormai compagna di avventure, non mi ha ancora abbandonata e posso portarla solo in luoghi caldi e tranquilli, così come sempre ci siamo trovate in osteria e abbiamo tirato fuori il Monopoli per la usuale partita all’ultimo sangue con i soliti amici avvinazzati.
Con due new entry, Ale e S, che per la prima volta incontravano le mie migliori amiche. La serata, diversamente dalle mie aspettative, è andata molto bene, sono già partiti piani per sbronze collettive veramente belli, da manuale proprio, si è creato già un bel feeling e a fine serata, ho ricevuto un sms da A che ha dissolto ogni nebbia: “Noi siamo pro 🙂 “. Non so ancora a cosa siano pro, ma ok, è un buon segno.

Tornata a casa, ho parlato un po’ coi miei e sono andata a nanna, ma prima ho controllato le mail dal cellulare.
Ovviamente, come mi aspettavo da un momento all’altro, M (alias Cicciommerda, per chi non ricordasse, il ragazzo di V) mi ha scritto, profondamente deluso perché, come dicevo qualche post fa, gli avevo mentito, coprendo V che nello stesso momento era impegnato a copulare allegramente con chissà chi.  Ho chiesto scusa come potevo a M, e ho scritto un bell’sms a V che stavolta ha chiuso per sempre ogni speranza di recupero del rapporto:
“Devi sparire dalla mia vita. Non farò mai più niente per te, in particolare non mentirò, non farò niente che possa farmi pentire di averti aiutato. Non coinvolgermi più nei tuoi piani malati, non farmi più sapere se stai male. Non ci sono più per te”. 

Adesso che ci penso, però, la serata non mi è stata rovinata. Ora sento una leggerezza addosso che nessuno può capire. E’ bellissimo.
Mi sono liberata per sempre di un fardello, di quei pesi che ti trascini dietro da anni senza senso e che non ti fanno più camminare. Questo era. Un fardello.
E lo dico con immensa cattiveria, con rabbia, perchè tre anni son tanti e non me li ridà nessuno. E lo dico con un sorriso sulle labbra, al contempo, perchè non sono mai stata così libera come ora.

Il primo taglio è il più profondo

“The first cut is the deepest”. Cat Stevens già lo sapeva.

Sono andata a dormire presto, ridendo per gli assurdi messaggi che Ale mi mandava da ubriaco, col buonumore e sperando di non sognare cose troppo astruse.
Avevo appena passato una giornata bellissima con le mie amiche di sempre e le rispettive famiglie, avevo ballato un lento con papà (ha dovuto approfittare dell’occasione perché non mi sposerò mai) e anche Raf mi stava quasi simpatico. Marti e Deb sono le solite amiche con cui ci si trova sempre bene, anche dopo anni, e poi c’era questo ragazzo dalla carnagione quasi di legno, Sam, sedici anni e mannaggiammè conosceva tutte le canzoni dei Beatles (dopo una sfida estenuante a colpi di titoli e ritornelli, ho comunque vinto io). Stavo veramente, veramente bene.
Sono riuscita anche ad addormentarmi subito, leggera e allegra.

Bzzzzzzz. Bzzzzzzzz. Maledizione, ho lasciato il telefono acceso.
Che poi per me dormire è l’attività più appagante della giornata, chiariamo, quindi già il fatto che mi si interrompa implica nervosismi vari.
Per abitudine controllo lo schermo, mezza assonnata. V. Erano anni che non ricevevo un suo sms nel cuore della notte, anni in cui ci ho sempre sperato. Se mi svegliavo, la prima cosa che controllavo era il telefono per vedere se magari il miracolo fosse avvenuto, ma non avveniva mai, se non quando stava tanto, tanto male e aveva solo me, solo e soltanto me. E io ho davvero fatto di tutto in quel periodo, mi sono veramente fatta in quattro per aiutarlo e per superare quella fase, perchè lo sentivo come un mio dovere; perchè lo amavo così tanto. Ma così tanto. Avevo continue sensazioni brutte e gli scrivevo per vedere se stesse bene, e le mie sensazioni erano sempre vere, c’era sempre qualcosa che non andava, prendevo la macchina, a qualunque ora, litigando coi miei, e correvo da lui. Dovevo. Ricavavo un “Grazie, sei la mia migliore amica”, e godevo quanto potevo ogni abbraccio e ogni sua lacrima, perchè potevo avere solo quello di lui, l’amore più forte della mia vita.

Ho letto questo messaggio senza capirlo, mi sembrava quasi rabbioso, c’erano tanti “Mi fido di te” che non riuscivo a collocare, tanti “Ho bisogno di parlare”. Tante cose che avrei voluto leggere a quei tempi.
Ma non ora.

E oggi, di nuovo, mi chiedo per quale motivo il suo sms mi abbia destabilizzata così tanto quando in fondo non era niente di che, era come sempre il mio amico che mi chiedeva aiuto, come in quell’aperitivo qualche settimana fa. Tranquillo. Cioè, si può respirare.
Però non ho fatto altro che pensarci, tutto il santo giorno, nemmeno rileggere i messaggi di Ale ieri sera mi ha fatto ridere, stamattina. Nemmeno la Sissi e i suoi trip; ok, lei mi ha fatto ridere, ma dentro ho ancora un taglio profondo.

E’ che appunto, come disse Cat, il primo taglio è il più profondo.
Amerò di nuovo come ho amato lui? Anzi, ne avrò di nuovo il coraggio?

Birthday presents

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E così, alla fine, ho accettato di festeggiare questo benedetto compleanno.
In anticipo perché, punto primo, non ne avevo voglia e quindi ho sfruttato la prima serata utile, e, punto secondo, perché avevo fatto una figura di merda col Raf e dovevo in qualche modo farmi perdonare (non è bello dire ad una persona “Sì, ci vediamo giovedì” e farti sorprendere pochi minuti dopo, pensando che lui fosse andato via, a dire ad una compagna di università “Col cazzo che ci vado giovedì“).
Va beh, alla fine non c’era A, non c’era V, ma c’erano G, Deb e il suo fidanzato romagnolo il cui accento mi mette il buonumore ogni volta che apre bocca, Marti, F, Ale, e altre persone che non vedevo da tempo.
Sia chiaro, l’unica cosa che abbia fatto vagamente intendere che quella in atto era una celebrazione di compleanno era la torta fatta in casa da me, [l’unica che so cucinare n.d.r.] che nonostante l’aspetto poco invitante ha riscosso un certo successo di pubblico con finale a sorpresa: Chiara e Raf che ne fanno fuori ben tre fette a testa impedendo così alla sottoscritta di assaggiarne anche solo la salsina al cioccolato.
E la torta è l’unico elemento che mi fa apprezzare i compleanni. 

Insomma, alla fine è andato tutto per il verso giusto e ho ricevuto in regalo, tradizione che viene rispettata da anni, ormai, un biglietto per un concerto: dopo Take That (?) e Incubus, quest’anno sono arrivati i miei adorati The Script e ogni volta che prendo in mano il foglietto giallo di Ticketone entro in estasi totale, è sempre un’immensa emozione.
Per la contentezza ho dispensato mega abbracci a tutti, anche al Raf che non sempre mi sta così simpatico, a Chiara che ultimamente non è esattamente quella che si può considerare la mia anima gemella, e al buon Ale che conosco da poco ma che è tipo il super amico più disponibile del mondo.

Il mio vero compleanno, però arriverà solo domani e come sempre sono preoccupata. Solitamente quand’è il momento sono depressa, molto, e per quel giorno tendo a voler chiudermi in casa e a non voler sentire nessuno, i messaggi li leggo tutti la sera e cerco di non farmi trovare. E’ che non ci trovo niente di allegro nel ricordare una data che è simbolo del fatto che ci si avvicina inesorabilmente alla decadenza fisico-psichica. Discorsi astrusi.
Ma è un fatto indipendente da me, alla fine i miei amici vorrebbero solo starmi accanto.
G mi ha proposto, per domani pomeriggio, un bel bivacco come ai tempi del liceo al parco. Solo, con aggiunta di vino. Saremmo io, lei, A e Mì. Ovviamente quando è stata introdotta la parola ‘vino’ non ho potuto assolutamente rifiutare per una questione di coerenza alcolica. E quando ho sentito dire ‘venerdì pomeriggio’ mi è venuto in mente che era il giorno libero di V e che il parco è sotto casa sua.
Perdona l’ora, ma lavori venerdì? L’anno scorso avevi dimenticato il mio compleanno, quest’anno te lo ricordo io. Scendi in Villa, io porto il vino e tu il tuo culo sfondato“.
No, lavoro tutto il giorno ma sono in pausa dalle tre alle sette“. (E qui penso, mi prendi per il culo?).
Ci sta, noi per le tre siamo giù“.
Sì, così forse finalmente rischio anche di vederti“. (Eri sibillino, amico?).

You’re missing

Yellow light – Of monsters and men.

E’ che mi manchi, V“.
Mi manchi anche tu, Jude“. 

Alla fine qualcuno doveva cedere. Dovevo essere per forza io. 
Bastano tre bicchieri di vino, ormai, e via, partenza!

Magari adesso studio per l’esame, dato che la mattinata è andata a fanculo pulendo tutti i vetri di questa casa enorme. Per colpa di questo esame ho pure dovuto disdire una festa di compleanno. FANCULO. Ai vetri e all’esame. 

Che oggi è pure il compleanno di Bruce. ❤ 

I love you?

Vedo queste storie di ragazzine che si bruciano la vita per stare dietro al loro migliore amico, e viceversa.
E sto così male per loro, come se ogni volta che vengo a conoscenza della loro brutta malattia, riviva istante per istante, abbraccio per abbraccio, la mia che sostengo essere passata.

Certo.
E’ che io sto così perchè capite, l’italiano medio si fa figo parlando inglese e scrivendo “I love you” negli sms. E’ che io se sento I love you non riesco a pensare al fatto che significa anche Ti voglio bene. Sicuramente è per questo motivo che sono rimasta fregata, sì. Dev’essere così. Non dimentico gli I love you e non so dare loro il giusto significato. 
E quindi sarò nella merda per tutta la vita.

Va beh, intanto 378915798 miei amici mi stanno facendo rosicare per aver preferito Gardaland (che mi procura sempre lussazioni varie) al concerto milanese degli Of Monsters and Men.
Però tanto alla fine so che ho fatto bene a non andarci. Sarei stata tutta sera con una di quelle ragazzine e con il suo migliore amico. Sarei stata triste per loro, molto. 

Suor Jude

“Oh, Jude! Ho saputo gli sviluppi.. la prossima volta che ti vedo mi devi presentare il tuo ragazzo”.

Seguro, amico! Dammi altri tre anni per riprendermi dai tre che ho già passato a stare male per colpa tua, e poi vai tranquillo che te lo presento.
Se non mi sono fatta suora. Di clausura.
Sì, so di essere atea.
No, non mi convertirò.
Sì, lo farò solo per non vedere la tua faccia da cazzo e quella del tuo ragazzo ciccione. E tutte quelle altre cose belle che mi avevano fatta innamorare di te. 

(sento il dover di riportare anche la risposta originale, per far capire il mio livello di viltà: “Volentieri, a presto :D” ).

Limbo

“Jude! Mi manchi, ho voglia di vederti”.

Giustamente. Quando io sto ricominciando a farmi una vita, per una dannata sera in cui penso solo a cantare accompagnata da una ragazza appena conosciuta e da un tizio dal nome strano che suonano la chitarra. Cantiamo i Guns’n’Roses, gli Oasis e anche gli Of Monsters And Men e i Plain White T’s. 
Insomma, quando una comincia a stare meglio. A godersi la propria esistenza e i primi risultati della policy of non-communication messa in atto da qualche settimana a questa parte. Una inizia addirittura a credere ai luoghi comuni, tipo lontano dagli occhi e lontano dal cuore. Una ci ripone tutta la sua forza, in quelle parole.
E quando è sul punto di aprirsi, dopo tanto tempo, a degli estranei, le vibra il cellulare.
“Jude! Mi manchi, ho voglia di vederti!”
Le parole che avevo sempre sognato di leggere, per almeno tre anni. 
E le parole che ora sono diventate il mio peggiore incubo.

Mi manca anche lui. Ma sarò più forte. 
Ho appiccicato un po’ di foto alla mia lavagna magnetica.
C’è John Lennon che mi fa il segno della vittoria con le dita.
C’è F che mi dice di continuare a lottare.
Ci sono l’abbraccio di G e i sogni di A.
C’è Firenze, Londra e i biglietti dei concerti dei Kooks, di Springsteen e degli Incubus. E poi c’è Mì in discoteca, che è un evento che avviene una volta ogni eclissi totale di sole.
Le cose per cui vale la pena continuare a non darsi per vinti.

C’è anche lui, resta pur sempre una parte essenziale di me. Accompagnato da una speranza, quella di poter riuscire presto a guardare quella foto senza pensare che poteva essere diverso. C’è la convinzione che prima o poi, perseverando, arriverò a quel punto in cui non vedrò l’ora di riabbracciare il mio vecchio amico.
E basta.

Welcome back to V

Va beh. Alla fine sono riuscita a far passare i dieci giorni che mi separavano dalla sua partenza con nonchalance, sempre piena di impegni e quindi impossibile da rintracciare.
E poi l’aereo è partito e con esso anche la maggior parte delle mie paure, per una settimana buona di studio, shopping, long island e oserei dire serenità (sì, la stessa che dico sempre di possedere da mesi in tutte le mail ad A e nei megalunghi discorsi con G, ma che onestamente non avevo mai avuto il piacere di incontrare realmente).
La mia conclamata serenità, comunque sia, mi porta spesso e volentieri a stati di sonno catatonico, evidentemente, e di sogni strani e veritieri: in sostanza, l’altra notte ho sognato che in questi venti giorni mi sono comportata da stronza.
Mi sono svegliata ed era vero.
Sono una stronza. Una grandissima stronza che per cercare di uscire da un tunnel di dolore lungo tre anni, dimentica che quel tunnel un po’ è affezionato a lei, anzi, dipende quasi totalmente da lei e ne ha un bisogno vitale.
Però mi sono redenta, eh sì, così per pulirmi la coscienza gli ho scritto un messaggio per vedere se era tornato, come andava, cosa avrebbe fatto in questi giorni. Il tempo di un caffè, magari, o di un aperitivo.
Non mi ha risposto.
Penso che sia ancora all’estero e non riceva i messaggi, può capitare. Magari ha perso il cellulare. Entro in uno stato confusionale di attesa convulsa, com’è stato per tre anni, insomma. Mi sveglio stamattina e come prima cosa controllo il cellulare, vecchie malsane abitudini. Nulla.
Accendo il pc e su facebook noto con grande gioia che è tornato, e sta bene, e che scrive dal mobile. Il cellulare non l’ha perso. Quello no, ma sono sicura al cento per cento che stia perdendo me.

E’ proprio vero che quando si parte si dimentica sempre di rimettere qualcosa (o qualcuno) in valigia.